Roba da ironman… Il pieno del viaggio lungo mesi e il vuoto istantaneo post finish line. Questa è la Kona, il secondo Ironman Hawaii, di Alessandro Tomaiuolo…

Dopo 100sessantanove malcontati post sul Campionato del mondo delle Hawaii, l’ennesima storia sul tema potrebbe risultare letale, lo capisco. Senza considerare l’aggravante che per quanto mi riguarda non ci sono sponsor da ringraziare o credibili prestazioni sportive strappa-mutande.

Meglio ammettere subito la vergogna e raccontare null’altro che la verità: eccezion fatta che per un piatto portafortuna di rape, senape e patate gentilmente offerto dal Ristorante Gloria di Via Giosuè Borsi a Milano (aperto lun-sab pranzo e cena; prenotando a mio nome padron Carmine non vi manderà a fare in culo se ha perso troppe palline sui campi di golf il giorno prima), il resto è tutta farina di Mastercard: la mia.

Clavicola nuova, attrezzi del mestiere, tabelle, manutenzione fisica, viaggio: me lo dico da solo, sfigato di merda. Per quanto riguarda invece gli aspetti sportivi, è solo buon cuore, credetemi.

Si può affermare con educazione e pacatezza, senza che nessuno si offenda sia chiaro, che i racconti sulle fatiche degne di Rocco, i sacrifici da frati trappista, dediche e ringraziamenti a mogli – mariti – figli – amanti – animali domestici – maghi & fattucchiere hanno scassato la minchia?

Non per altro, solo fatico a credere che qualcuno a parte il mio ego sia davvero interessato a sapere del perché un nuoto così tormentato o la crisi a piedi negli ultimi 12 km (per la cronaca, “non esiste la crisi del trentesimo. Ti sei allenato poco o hai cannato i ritmi”, cit. Franco Prezzi) mi abbiano fatto arrivare 300qualcosesimo anziché 250altresimo.

Contrariamente non si spiegherebbero le domande che dopo 20 anni di gare oscillano ancora tra il “eh-la-madonna…ma tutto di fila?” e il “fico…hai vinto?”.

Alessandro Tomaiuolo durante i 180K bike dell'Ironman Hawaii 2015

Alessandro Tomaiuolo durante i 180K bike dell’Ironman Hawaii 2015

E’ la legge del social, bellezza: tutti sanno tutto, nessuno sa un cazzo.

Torniamo a noi e basta parolacce, promesso. Ci sono due elementi per i quali Kona può essere considerato una gara diversa da tutte le altre: l’eccesso di pieno iniziale e il senso di vuoto finale.

Mi spiego: se è vero come dice capitan Fontana che l’Ironman è un romanzo, allora le Hawaii sono l’Ulisse di Joyce: tomo illeggibile, ma fondamentale per la letteratura del ‘900.

Indigesto da comprendere nella sua interezza, ma allo stesso tempo rivoluzionario nel suo significato più profondo. Roba per molti, non per tutti. L’Ironman come Joyce rovescia il canone epico della tradizione agonistica, garantendo la gloria effimera non solo al vincitore, ma anche ai comuni mortali che ne emulano le gesta.

Questa gara, come quel libro, rivelano squarci e discese nell’abisso psichico dei loro personaggi, aprendo porte sulla verità di ogni essere umano che a volte sarebbe meglio chiudere subito dopo averci sbirciato dentro.

Le Hawaii ci aggiungono l’epicità arcaica della selezione della specie e condiscono il tutto con l’esclusività aspirazionale di un prodotto di marketing che solo gli Yankee potevano inventare. E i cinesi comprare.

Kona monopolizza l’agenda dei suoi preziosi clienti nei mesi precedenti tra qualificazione, preparazione e organizzazione. E’ un lento conto alla rovescia che come i primi capitoli di Joyce va affrontato con piglio scolastico da secchione del primo banco.

Un pensiero fisso che occupa tutti gli spazi liberi della quotidianità, rubando il fiato alla vita e lasciandoti senza respiro fino al colpo di cannone. Poi il racconto si dipana più semplice: una manciata di ore tra vento e caldo, olezzi umani, drammi e sorrisi che iniziano e chiudono su Alii Drive.

Infine il vuoto.

Lo racconta meravigliosamente un recente libro “Vuoto a vincere”, pensieri e parole di atleti dopo la vittoria.

«Tutto quello che avevi creato, per cui hai lottato e ti sei sacrificato, di colpo non c’e` più. E’ una tristezza infinita» racconta Lucchetta.

A Kona dicono si vinca semplicemente tagliando il traguardo. Appunto, dicono. Le classifiche sono tante, tutte degne; ma poi una sola è quella rilevante: se non appartieni al ceppo germanico o alla casta dei sovraumani non ci entri nemmeno nel caso tuo padre si chiami Steve Austin e da giovane abbia vestito i panni dell’uomo da sei milioni di dollari.

Circoscrivi ai coetanei, togli i professionisti perché “se avessi io tutto quel tempo libero sai che roba”, escludi le donne perché “il ciclo ho letto che può avvantaggiare”, leva quello perché “si bomba, me lo ha detto uno che conosco” e anche quell’altro “che dai, con la carrozzina in discesa sarei bravo anche io”.

E poi la prossima volta andrà meglio. Forse. Ma un pezzo di latta colorato, i ricordi ancora densi e qualche rimpianto destinato a sbiadire insieme ad uno spesso blocchetto di scontrini della carta di credito non bastano.

Troppo poco per colmare quella sensazione di vuoto che cresce potente appena dopo il ritiro del bagaglio.
Il libro è finito.
E adesso?

Ecco come Alessandro Tomaiuolo ha affrontato i 42K bollenti di Kona 2015

Ecco come Alessandro Tomaiuolo ha affrontato i 42K bollenti di Kona 2015